Dal codice rosso al codice Messi il passaggio è stato brusco, improvviso. Il Liverpool era sotto al Camp Nou, sotto di un lampo – l’unico, fin lì, del Barça: palla tesa di Jordi Alba, zampata di Suarez – stava dominando, avrebbe meritato il gol mancato da Mané e negato, dai riflessi di ter Stegen, a Milner e Salah. Il surf di Klopp – difesa alta, squadra corta, recupero-palla lesto, punte larghe – cavalcava onde proibite ai più.
Gli attaccanti del Barcellona non tornavano. Non potendo licenziare il pistolero e meno che mai Sua maestà , il saggio Valverde ha tolto Coutinho, inserito Semedo e avanzato Sergi Roberto, ritrovando così uno straccio di equilibrio. Sarebbe bastato, non sarebbe bastato senza la traversa di Suarez che spalancava il Mar Rosso a Leo e senza, soprattutto, la di lui strabiliante punizione? A saperlo. Il palo di Salah (un gol sbagliato, comunque) e il poker buttato da Dembélé hanno sigillato la notte: Barcellona tre, Liverpool zero.
Lo scarto, di per sé, non esiste, ma non contiene ombre, dubbi, sospetti. I risultatisti si daranno di gomito, inneggiando alla vittoria dell’uomo sull’ingranaggio, del tenore e degli episodi sul coro e lo spartito. I prestazionisti stapperanno champagne al gioco dei vinti, comunque apprezzabile e, per questo, meritevole dell’onore delle armi. Il Liverpool, a Barcellona, non aveva mai perso. Dubito che un catenaccione l’avrebbe salvato, ma si sa: chi molto digiuna, da noi e altrove, si attacca al fiasco dei risultati per ubriacarsi di giustificazioni.
Anfield è pura magia, questa volta servirà però un miracolo. Il bello è che Messi stava giochicchiando. Ingabbiato, nervosetto. I fuoriclasse, sosteneva zio Vujadin, vedono autostrade dove altri solo sentieri. Il primo è stato un gioco da ragazzi. Il secondo, invece, un gioco di prestigio. Seicento gol: come Cristiano. Toh.